Sufjan Stevens è uno dei grandi, grandissimi di questo secolo, poco ma sicuro. “Carrie and Lowell” era un disco immenso, ma lo era anche “Illinois”, e possiamo dire davvero non lo fossero “Seven Swans” o “Michigan”? Io poi ho amato molto “All Delighted People” e “The Age of Adz” (forse solo un po’ meno). Discografia da salvare in toto, dai, diciamolo. E le perle laterali? I dischi natalizi, le avventure orchestrali, i balletti, l’album col patrigno, le colonne sonore…tutto magari non a livello dei dischi quelli veri, ma di dignità altissima pur sempre. E quindi arriva il nuovo e l’ascolto deve essere un momento di raccoglimento. Si sapeva già che il verbo stavolta sarebbe stato l’elettronica e che probabilmente qualche spunto pop come mai in precedenza sarebbe uscito dai solchi. “Video Games” in un mondo ideale è l’hit dell’anno, ma che ve lo dico a fare? L’album affronta il suono sintetico in maniera molto più calda ed organica che nel precedente tentativo fatto con “age of adz”. Qui pare di trovarsi di fronte a canzoni nel senso classico del termine che sono vestite così (“mi sono stancato del folk” avrebbe detto il nostro) ma che starebbero in piedi tranquillamente pure acustiche. Inoltre l’elettronica di “The Ascension” è un elettronica calda, senza troppi spigoli, che non ferisce anche quando prende a ritmare sincopi e imperfezioni. Ci sono le aperture orchestrali nei finali come già nel disco precedente ma se là chiosavano celestiali intimismi qui dipanano orizzonti di soluzioni impossibili dopo un groviglio inestricabile di umori.
Perché questo album è fortemente pessimista e sembra ricollegarsi ai dischi sugli stati (diceva di volerne fare 50 il ragazzo burlone) per racchiudere tutta l’america in 80 minuti. Un’America in crisi di identità, di valori, coi nervi a pezzi, che è lo specchio di un mondo esattamente dentro ad una sorta di medio evo oscuro da cui pare non esserci uscita. E la ferita arriva a Sufjan stesso che ripete “Non fatemi ciò che avete fatto all’America” nell’ultimo brano del lotto, che chiude il disco e al contempo lo spiega. Va ascoltato tutto per intero, come un film di 80 minuti, un libro, un’opera che pare un flusso continuo, uno sfogo ambient su testi pieni di simbolismo spirituale (la morte felice, il richiamo a gilgamesh, la cristianità in difficoltà) ma anche popolare, come i riferimenti al frasario del Padrino («Fatemi un’offerta che non possa rifiutare») o alla “Goodbye to All That” di Joan Didion, fino alle citazioni del Tavor (per gli americani è Aviton) e dello zucchero che per Sufjan è meglio di “tutta la merda che hanno cercato di somministrarci”. Un Sufjan completamente dentro nel club degli inattuali, dei nostalgici di un futuro che ci stiamo inesorabilmente lasciando alle nostre spalle.
Voto: 8