NICK CAVE & WARREN ELLIS “CARNAGE”

Arriva come una sorpresa, come un sole caldo fuori stagione, e ferisce e lenisce. Otto brani, quaranta minuti, due uomini, un mondo. La carneficina del titolo è la pandemia, ma anche il dolore diffuso, e si riprende da dove eravamo arrivati con l’immenso “Ghosteen”. Simboli, metafore, parabole, nella liturgia di un Cave sempre più salmodiante ma sorretto da una scrittura di livello altissimo, crudelmente liberata dalle recenti tragedie private e finalmente universale, come se i demoni di 40 anni di carriera ora fossero condivisi al punto da non trovare più scuse, più bisogni di maschere d’artista. Tutto è compiuto e la presenza biblica è fisica, tangibile, quella mano di Dio che apre l’album, minaccia e memento. Warren Ellis è la necessità, l’insostituibile contrappeso, il sine qua non, ben più del Collaboratore con la C capitale. Ellis è ormai Cave stesso, identico corpo ed identico sentimento. Le musiche sono uno sforzo minimalista oltre il percorso già scarno di “Skeleton Tree” e “Ghosteen”. Forse qui c’è più micro elettronica, per lo meno ad inizio lavoro, ma gli arrangiamenti si mantengono orchestrali e si fanno via via più acustici. Vi sono quasi inattese aperture corali come in “White Elephant” e momenti dolcissimi come in “Albuquerque” sorretta da un limpidissimo pianoforte. Non c’è solo lutto in “Carnage”. C’è il mondo in lockdown che riflette su se stesso senza capirsi, perché è troppo tardi per chiedere al mondo di rinsavire e la punizione è per tutti e di tutti, c’è l’odio razziale, la paura del diverso, c’è un insieme di temi che hanno fatto del 2020 uno degli anni più drammaticamente intensi della storia moderna. Non è “Ghosteen” parte seconda, affatto. Pare più una riflessione silente e solitaria dopo quell’oceano di emozioni. E’ esattamente come dovrebbe essere un’opera d’arte calata sulla realtà di un virus che ha svelato decine e decine di altri virus. E c’è quel verso alla fine, capolavoro assoluto, che spiega Cave spiegando noi stessi e questo pianeta che ci ostiniamo a guardare come non fosse nostro, come se il nostro prossimo non fossimo noi stessi, come se non fosse davvero urgente il momento di capire dove siamo arrivati e capire che si deve tornare indietro. Quel verso, dicevo, che si porta via l’album e un pezzo di coscienza collettiva; accade in “Balcony Man” in cui c’è l’immagine fortissima di un uomo che balla sul balcone al mattino e dice : “And what doesn’t kill you just makes you crazier”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *