Tra le cose più struggenti, intense e misteriose del novecento in musica, vi è l’opera di Federico Mompou. Catalano, classe 1893, si trasferisce a Parigi quando il secolo pare tutto rappresentato nella capitale francese e il pianista di Barcellona ne rimane estasiato. Tornato in Spagna, continuerà a mettere nelle sua composizioni uno spirito malinconico molto impressionistico, una sorta di utopica unione tra la lezione di Satie e quello che poi sarà il pianismo jazz classico di Bill Evans e Keith Jarrett. E poi la catalogna, nelle canzoni e nelle danze tradizionali, nella tragedia della guerra civile, nella nostalgia latina del vivere intimo. Arturo Benedetti Michelangeli lo amava molto e spesso usava una delle sue canzoni (quasi sempre la numero 6) come bis dei suoi recital. In Mompou c’è una sorta di essenza del novecento, tra innovazioni e slanci romantici che sempre finiscono in osservazioni sussurrate, in suggestioni senza frastuono, in quella “musica callada” che rappresenta il suo stesso manifesto d’intenti. Ha unito la mistica di San Giovanni Della Croce all’ispirazione di Gabriel Fauré, la lezione di Chopin all’uso degli ostinati e delle miniature, il cattolicesimo con la sensualità dell’abbandono, il neoclassico all’adesione agli stilemi popolari, la Spagna tradizionalista e la Francia avanguardista. Perfetto autore europeo, emozione pura di tempi che paiono perdersi lontani, mentre i nostri sbiadiscono in una malcelata decadenza.
MOMPOU
