È una specie di pugno in faccia quello che ti arriva appena inizia questo quarto disco degli Horse Lords. Smetti quasi di pensare e la trance ha inizio. Incredibile come la sensazione di simmetria e di geometria sia data da qualcosa di così asimmetrico e anti geometrico. Eppure il quartetto si muove rigido e ordinato nel suo marziale ordine che mette a sistema le intuizioni del free jazz o il dadaismo di Captain Beefheart e arriva fino all’impro degli Storm And Stress con tanta africa e una consapevolezza “avant” mai autoindulgente e in ogni caso calata in un minimalismo moderno scevro da un’effettistica fine a se stessa.
Sono cinque brani mediamente lunghi con momenti che nel frastuono collettivo sembrano addirittura ambient e Dio solo sa come può essere ma tant’è e ascoltate il finale di “Fanfare For Effective Freedom” se non mi credete. Musica atonale di un’intensità pazzesca. Altrove è il basso a dettare le danze con chitarre che si intrecciano tanto funky quanto disciplinate e un sax che non è mai solista essendolo paradossalmente sempre come nella quasi crimsoniana “Against Gravity”, con accenni Battles. C’è tanto Glenn Branca in più di un momento, quel post minimalismo che solo se ci si distrae sembra un inestricabile groviglio quando in realtà è compiutezza totale di trame e ritmi. Quando arriva la cornamusa in “Radiant City” si è ormai troppo presi dal senso del tutto per essere davvero stupiti ma il suo colpo lo fa eccome. Svisate elettroniche e bordoni che si alternano al solo di Duncan Moore che poi lascia spazio a quello che è forse il pezzo più lineare (si va beh capirai) ovvero “People’s Park” che pare i Tortoise di TNT se solo esistessero ancora i Tortoise di TNT. Ma il centro del disco sono i 18 minuti di “Integral Accident”, somma e summa del tutto. Voci trovate, un quasi corale, rumori concreti, ambiente sonoro alieno, tutto scorre increspandosi pian piano fino a fondersi in ritmi circolari e sfuggenti, ricordi di Einstein On The Beach, fughe in avanti repentine e parossismi psycho ipnotici e parecchio kraut. Un monolite frantumato che si staglia imponente e fragile al contempo.
Un disco stupendo, che dà valore al senso della sperimentazione ed emoziona per genio e corporeità.
Voto 9