FIONA APPLE “FETCH THE BOLT CUTTERS”

Ci ho dormito sopra un po’ al nuovo album di Fiona. Perché la prima impressione era stata talmente forte che mi pareva strano doverla assecondare. Era evidente fosse una reazione da stress portato dalla quarantena, da un isolamento che amplifica ogni emozione fino a farti sembrare capolavori anche cose che sono “solamente” molto belle. E quindi ho dormito sereno. E dormendo ti rilassi e poi pensi meglio.

Fiona Apple è una ragazza talmente speciale che se te ne innamori poi è per sempre. Da “Tidal” in poi è stato così. E i perché sono tanti. Quella ragazzina che sussurrava gridando la sua rabbia, il suo dolore per la violenza ricevuta, per una vita violata, non era uno dei tanti, c’era qualcosa in più. Erano gli anni della Morissette che rendeva partecipe il mondo degli abusi sessuali subiti, erano gli anni di Tori Amos che anche lei vendeva milioni copie parlando del suo stupro e dei rapporti col padre. Fiona pareva essere un’altra delle ragazze segnate dal male che si affrancavano con la canzone. Una ragazza giovanissima in più, e bella e con un talento incredibile non solo per la sua età ma in assoluto. Eppure non era tutto lì, ma neanche un quarto. In “Tidal” sentivi una capacità compositiva e di arrangiamento che era letteralmente fuori dall’ordinario. Per carità, c’erano rimandi abbastanza precisi (Jony Mitchell su tutti) e in ogni caso si parlava di blues, jazz/pop ma un disco così a 18 anni faceva impressione. E poi lei, la persona Fiona. Quella che va a ritirare il premio come artista dell’anno agli MTV Music Awards e dice “A tutti quelli che stanno guardano questo mondo, beh , questo mondo è una merda” e lascia di stucco tutto l’ambaradan che infatti da lì in poi la mette in disparte ma tanto a lei poco importa. Perché Fiona è fatta così, sta da sola, gioca col cane, vive in un mondo suo, tanto più che il disturbo ossessivo/compulsivo invece che abbatterla le fa scegliere un’esistenza che in fin dei conti le somiglia. E così compone e suona e scrive e vive e le esce il titolo più lungo della storia del pop, lavora e rilavora il terzo album fino a riprodurlo da capo, e poi arriva al quarto disco toccando vertici artistici sublimi e si ferma. Siamo nel 2012, otto anni fa. “The Idler Wheel…” era qualcosa di speciale, un quasi capolavoro che rappresentava il sogno di quello che già sentivi dentro ai suoi dischi fin dall’inizio ma che sognavi potesse diventare così e infatti così è diventato.

E così questo nuovo album era una della cose più attese del mondo, almeno del mio mondo e torniamo all’inizio, al quel primo ascolto e alle dormite successive. E non c’è niente da fare, è un capolavoro, suo e in senso assoluto. Ed è catartico, liberatorio, è un altro linguaggio, una Fiona Apple nuova perché evoluta in se stessa e da se stessa, che ora urla di voler vivere, di voler essere amata, e ha smesso coi discorsi da “di dentro” e può finalmente farli verso il “fuori”. È un lavoro fisico, plastico, con la sua casa e il suo cane che suonano nei brani come suoni essenziali, necessari, i muri, le stoviglie, l’abbaiare, i rumori di fondo, il mix balordo che a volte stride e va in saturazione, tutto è denso, cellula viva, cuore che batte, sinfonia di musica concreta. C’è Tom Waits che incontra Kate Bush, c’è soprattutto una Apple mai così sincretica, mai così totale. Un disco di cui parleremo a lungo, che ci accompagnerà per sempre, anche nei sogni.

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