Dylan torna dopo otto anni con un disco di inediti. Torna in un momento in cui il mondo soffre come da tantissimo tempo non soffriva. Il virus, le pericolose svolte a destra, il caso Floyd, il clima, la crisi economica, un quadro d’assieme preoccupante e potenzialmente pericolosissimo. E Dylan è quello che ci voleva. È notte inoltrata e per la prima volta posso ascoltare “Rough and Rowdy Ways“ dall’inizio alla fine. Amo Bob Dylan come si ama la vita stessa, con i suoi saliscendi, le cadute, le fughe, l’amore donato e quello negato. Dylan è tutto. Contiene moltitudini, come dice nel primo brano, anticipato un mese fa, e si inizia il viaggio. Le atmosfere sono d’altri tempi, un po’ “Oh Mercy” e molto simili ad un pre-rock che neanche i migliori Lambchop hanno mai sfiorato, la citazione di Walt Whitman come un punto d’arrivo di una vita letteraria e di una storia americana di uno dei più grandi artisti che quella terra abbia mai donato al mondo. Pelle d’oca. Si prosegue con “False Prophet”, blues pachidermico e sinuoso, anche questo uscito come antipasto, e il suono è quello dello splendido “Love and Theft” ma va anche oltre, è pulito e grezzo, scuro e vivace, prodotto in maniera eccezionale. I falsi profeti sono altri, lui dice giusto quel che dice, ed è una storia che va avanti fin da metà anni sessanta quella di Dylan che si chiama fuori dal ruolo di cantore di una generazione. Ma stavolta forse come non mai, Bob fa i conti col tempo. Quello che è passato e quello che continua a passare. Mi rendo conto che questo può essere un disco totale, sia nelle liriche che nella musica. Non so se sarà il suo ultimo, penso di no, ma si respira davvero l’aria di riassunto e i testi paiono raccogliere ispirazioni, miti, storie e leggende di 60 anni di musica.
L’attacco di “My Own Version Of You” mette i brividi, sta tra un blues e un valzer, ha una classe che pare di un altro mondo e in parte lo è. Dylan cita l’Al Pacino di “Scarface“ e il Marlon Brando de “Il padrino”, Liberace e l’armageddon, nel suo racconto della creazione di una sorta di Frankestein: “I will bring someone to life that’s what I’ll do/I will create my own version of you” Sento che sono emozionato, non sarà di certo una recensione obiettiva. Chissenefrega, basta ammetterlo, candidamente, che il cuore batte e lo fa forte. Si va avanti. “I’ve made up my mind to give myself to you” è un Sinatra (grande amore del nostro per altro) che rivive in una ballata rarefatta e in punta di piedi. Rarefazione che è un po’ la chiave dell’album, un sentimento intimo e notturno, quasi un Tow Waits sobrio.
Mentre lui canta di come sia liberatorio alla fine arrendersi all’amore e a quello che l’amore richiede c’è quel coro in sottofondo e quella ninna nanna semi natalizia che mi portano quasi alle lacrime. “Been thinking it all over / And I thought it all through / I’ve made up my mind / To give myself to you.”Questo disco rischia di essere qualcosa di davvero grande. Poi c’è la morte, altro tema che compare spesso. La morte fisica, quella della ragione, quella del tempo, dei giorni, la morte per omicidio, la morte indotta e quella che si sente arrivare. In “Black Rider” il cavaliere nero è una metafora del confronto con il passato e la voce di Dylan è cristallina e sostenuta appena da poche linee di chitarra e basso e uno splendido mandolino. “Black rider, black rider/all dressed in black/I’m walking away/You make me look back/My heart is at rest/And I’d like to keep it that way/I don’t want fight/at least not today”. Meravigliosa. Dopo tanto immenso e raccolto sangue vivo di poesia si torna al blues con “Goodbye Jimmy Reed” che è in stile Reed appunto ma ricorda anche il Dylan di “Leopard-Skin Pill-Box Hat” e ammonisce “Never pandered, never acted proud.”
Sono a metà disco e ho il fiato corto e il sonno è sparito. “Mother of muses“ riporta ai toni lenti e notturni. Bob vuole sposare Calliope ma canta anche delle muse in uniforme come Patton e Sherman che “cleared the path for Presley to sing/who cleared the path for Martin Luther King”. La storia, ancora, i conti col passato. Un 79enne saggio che spiega il senso stesso della sua vita: la libertà. Poi arriva un altro blues con “Crossing The Rubicon” dove il fiume che attraversò Cesare diventa metafora delle decisioni irrevocabili. Un passo in là e la vita cambia. Un passo verso l’azione ma anche verso la fine della vita stessa. Il Rubicone si passa e non ci si volta indietro.
Ed ecco che arriva “Key West” e rimango folgorato. Ancora un simbolo di assoluto, il punto più a sud degli Stati Uniti che diventa un luogo dell’anima, il posto dove finalmente trovare non solo se stessi ma anche la pace. “I was born on the wrong side of the railroad track/Like Ginnsberg, Corso and Kerouac…Key West is the place to be if you’re looking for immortality/stay on the road, follow the highway sign/Key Wast is fine and fair/if you’ve lost your mind, you’ll find it there/Key West is on the horizon line”. Chitarra, fisarmonica e una batteria discreta fino a non farsi quasi sentire e una voce che è incredibile, che è così perfetta, unica, assoluta e sostenuta da un coro lieve ad opera di Fiona Apple e il tutto pare così meravigliosamente coerente che commuove. Lei, la stupenda Fiona che vive lontana dal mondo, con lui, che il mondo l’ha cambiato vivendo sempre dentro ad un altro mondo, il suo. “Key West“ è un brano talmente bello che ha l’aria delle opere definitive, dei manifesti di una carriera, e potrebbe chiudere il disco e sarebbe già un capolavoro. E invece ne manca una. Ed è talmente importante che nella versione CD occupa interamente il secondo disco. Come fosse un’opera a parte. Ma in realtà è completamente integrante all’album e ne è vertice assoluto. Ma qui siamo oltre. “Murder Most Foul” è una delle pagine migliori di tutta la carriera di Dylan, così come lo è d’altronde tutto “Rough adn Rowdy Ways”. Ma questi 17 minuti sono speciali. L’assassinio di JFK viene posto al centro del moderno dilemma americano. “The day that they killed him someone said to me, ‘Son / The age of the Antichrist has just only begun’.”
Le radici dell’erosione della democrazia statunitense in contrapposizione alla controcultura e un Dylan che disegna il novecento e la sua decadenza in mezzo alle ricerche disperate di libertà, dopo quel giorno a Dallas che ricompare sempre nella canzone. E poi i Beatles, Altamont, i pagliacci, i politici, gli hyppies, e quel momento in cui “the soul of a nation been torn away/and it’s beginning to go into a slow decay.”
La band suona glaciale alle sue spalle, un lento accompagnamento che ricorda molto l’ultimo periodo di Nick Cave ma per certi versi va pure più in là. È un brano fiume, ed è letteratura altissima. De Lillo, Roth, siamo da quelle parti. Ecco, il disco è finito. Sono passati 71 minuti. Ho ascoltato canzoni che hanno raccontato un panorama di culture, storia e filosofia, e omicidi, guerre mondiali, nascita di nazioni, crociate e miti biblici, tutto per mettere in ordine il suo ed il nostro posto dentro al grande ed eterno schema. Capolavoro assoluto, che va a ad occupare lo stesso posto di tanti altri capolavori dylaniani. Insieme a “Freewhelin” a “The Times They Are Changing”, a “Bringing It All Back Home”, “Highway 61” e “Blonde On Blonde”, insieme a “Blood On The Tracks”, a “Oh Mercy”, “Time Out Of Mind” e “Love And Theft”. E ne sto lasciando altri solo perché cerco di ricompormi e tornare un diligente e distaccato critico. Ma sono felice perché il mondo è un posto straordinario proprio perché c’è gente come Bob Dylan. E prego che viva ancora a lungo. Sono le 3 in punto della notte tra giovedì 18 e venerdì 19 Giugno del 2020. Sono felice. E tristissimo.
Voto: 10